“Credo fermamente nel potere del dialogo perché, dopo di tutto, rimane la maniera migliore che abbiamo per sensibilizzare le persone sul tema dell’omosessualità, in qualsiasi momento, in qualunque contesto”. Perché la parola appartiene all’“umanità tutta”.[1]. Nasce come mezzo interamente sociale e convenzione tra individui, ne permette l’estensione del pensiero. Se potessi scegliere un termine lessicale tra i tanti che meglio esprimono l’idea, opterei su comunicare ovvero “rendere comune, scambiarsi un dono”. Solo il dialogo e la comunicazione permettono di fare conoscere alle persone noi vicine i pensieri e i sentimenti. Che cosa c’è di più efficace del linguaggio in azione nel concretizzare i nostri stati d’animo? Che cosa d’altro può rendere l’emozione un “oggetto” che gli altri possano toccare, conoscere e apprendere sensibilmente?

Caro lettore, mi servo di questa breve introduzione perché vorrei descrivere una situazione prototipica d’imbarazzo che ci capita di vivere spesso, ogni qual volta che scegliamo di parlare con qualche altro essere umano con due gambe e due occhi. Ci riferiamo, appunto, a quei momenti in cui si deve, per forza o per educazione, rispondere a domande un po’ invasive quali: “Perché sei gay?”, oppure “Perché ti piacciono gli uomini/donne?”. Solo noi meschini sappiamo e forse Dio con noi sa cosa si prova in quei momenti – e potremmo avere di fronte il più figo/figa e il più/la più sexy e il più gnocco/la più gnocca e quello/a che fa più sesso della terra, non importa! –, la tristezza nel sentire quella progressiva decadenza della curva umorale, il senso di frustrazione intrinseco che scende e tracolla, fino al minimo necessario per garantire la sopravvivenza di qualsiasi tensione; ed è la morte psicologica.

Mancano sempre le parole perché… sarebbe troppo facile e poco appagante negare il senso della domanda rispondendo: “è così, non c’è un perché!”. Sono questioni che ricordano, tra l’altro, le tipologie di domande che i bambini, in una determinata fase dell’infanzia, continuano a porre “Perché? Perché? Perché” – chi è mamma sa quanto sia snervante. Ed anche i bambini causano imbarazzo; alle volte ci si sente sotto inquisizione, un po’ ignoranti nel non sapere rispondere al “Perché l’acqua bolle?”. Sfido chiunque non sia fresco di qualche studio di fisica o chimica ad avere la risposta pronta nel dire: “Riscaldando un liquido, la sua pressione di vapore aumenta sino a quando raggiunge un valore che eguaglia la pressione atmosferica. La temperatura corrispondente prende il nome di temperatura di ebollizione il cui valore dipende dalla pressione ambiente. Alla temperatura di ebollizione corrisponde un’energia cinetica media delle particelle del liquido tale che possono sfuggire attraverso il liquido stesso.” Vabbè, anche se lo sapesse, sarebbe utile al figlio di soli 5 anni rispondere con una breve introduzione termo-fisica? No. Certo è che se il nostro interlocutore fosse un adulto, un signore di rispetto, non si potrebbe di certo optare per la via sbrigativa.

L’imbarazzo nasce quando dall’ingegno di quella domanda “Perché sei gay?” si presuppone di poter conoscere e di poter sapere rispondere innanzitutto alla domanda: “Che cos’è l’uomo?”. Molto probabilmente, nel nostro comune e stereotipato etnocentrismo, anche noi crediamo si possano elencare una serie di attributi definiti, veri, e inequivocabili nella definizione di “uomo”. Stupidamente, ci facciamo truffare da quello stesso interlocutore che probabilmente si illude di possedere una risposta accettabile, una definizione, che tutti dovrebbero conoscere. Facendo questo, fate attenzione, non rinneghiamo solo il buon senso, ma andiamo in controtendenza a circa 2400 anni di storia del pensiero che, pensate, tutt’oggi non ha una risposta.

In termini tecnici parliamo di antropologia implicita ogni qualvolta una società pensa, crea e incarna un concetto di uomo dotato di senso[2]. Implicito perché l’insieme delle caratteristiche che costituiscono l’idea presso una determinata comunità, stato, nazione o gruppo non si trova scritto in qualche manuale, o su qualche pagina costituzionale, ma deve essere indagato nei più piccoli e nascosti tratti culturali della società stessa: tradizioni, canzoni, proverbi, modi di vivere, azioni etc. Ogni società possiede la propria idea di uomo, ed ogni singolo individuo che partecipa alla collettività ne viene forgiato.

Non mi dilungo! Ci sono maree di studi che spiegano come si tenda erroneamente in tutto questo a creare un universo concettuale uomo/donna definito, statico; troppo spesso si crede che la propria idea sia quella corretta e giusta rispetto le altre. Ad esempio: 1) l’uomo è XY che lavora, scopa, etero, beve la birra etc. La donna è XX con capelli lunghi, gravida, shopping, etero etc. Ma tutto questo oltre ad essere estremamente boring è oramai criticato da secoli. Il genere umano non si compone di qualche rimasuglio di scorie culturali di qualche generazione passata, e mi spiace pensare che per colpa di qualche borghesismo, non si studi, né faccia ancora parte della formazione di ciascuno, come la letteratura, la civiltà, la filosofia e molte altre discipline umanistiche, abbiano da circa 400 anni superato questa dicotomica divisione di genere, sesso e gusti.

Noi, uomini di qualunque sesso ed età, abbiamo afferrato l’esistenza di un universo antropologico fondato sulla cultura, ovvero sul simbolo, ed anche noi fieri omosessuali siamo parte di questo insieme. Perché non esiste un’idea di uomo fissa e statica, non esiste dunque la natura, la norma e l’ordine, da un lato e l’eccezione naturale dall’altro: esiste solo ed unicamente la molteplice umanità[3]. Alla domanda quindi “Perché sei gay? Perché l’omosessualità?” ora come ora risponderei: “Non lo so…andiamo a bere qualcosa?” e sfoggerei un grande sorriso.


[1] Wittgenstein Ludwig, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell, 1953

[2] Remotti Francesco, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 2009

[3] Remotti Francesco, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 2009

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