Una sera d’estate infrasettimanale: un paio di birre, qualche sigaretta e amici. Un po’ di relax a fine di giornata. Finché entra un ragazzo, non è un cliente abituale. Si avvicina al bancone, con un amico alle spalle, e chiede: “Una media scura, grazie!”. Al cenno di assenso del barista, continua a conversare col ragazzo che gli è accanto. Ha un timbro di voce caldo, profondo, è alto e muscoloso quanto basta. E’ lui! Il nostro “papabile” principe azzurro. Da uno stato di riposo, repentinamente il cervello comincia a elaborare grandi informazioni, escogitare tecniche di seduzione, analizzare ogni singolo dettaglio. Cinque, dieci… trenta minuti (vince chi delle pippe è un grande atleta) di intense discussioni fino a quando si giunge al capolinea di una meccanica catena di deduzioni: è forse gay?
In queste poche righe romanzate leggiamo una situazione molto diffusa. E della conclusione che dire? C’è una domanda che per molti prende connotazioni esistenziali; un interrogativo vissuto da una buona parte della comunità LGBT e non solo!
Un’impresa titanica nel valutare: outfit (la tenue), timbro di voce e movenze, atteggiamento, camminata etc. Cerchiamo lo sguardo e ne valutiamo l’accuratezza delle sopracciglia. Come giudici in un tribunale si aspetta qualche movimento del polso accentuato affinché si possa dire:- A mister “x” piacciono i maschietti!-.
Non sarà mai una certezza, perdiamo tempo e di questi attimi ricchi di wasting time crediamo ancora che l’orientamento sessuale si concluda nel colore di una maglietta abbinato o dal taglio attillato dei pantaloni.
Ci siamo imbattuti nel grande mondo degli schemi culturali, la vita quotidiana degli stereotipi con i quali siamo cresciuti, e ai quali siamo vincolati. Un unico e costante ideale di riferimento: “Il maschio alfa”. Le generalità che lo riguardano sono un rigido elenco di caratteristiche ben definite affinché si possa appartenere alla classe dominante e goderne delle agevolazioni che per “natura” (certa gente crede ancora in giustificazioni naturaliste) sono concesse: urinare in zone pubbliche, guardare le ragazze in maniera libidinosa e poco decorosa, comportamento aggressivo, scatti d’ira, atteggiamenti poco fini ed eleganti nella relazione di coppia etc. molto altro.
Parliamone! Se fosse una donna? Le sventurate rispondano.
Espressioni generali quali: “Fare da uomini”, oppure “Ragazzate!”, o ancora “Massi, E’ un uomo!” si rivelano essere un ricco susseguirsi di locuzioni che in origine presentano un’unica opinione collettiva. Giustificano o colpevolizzano a priori un comportamento civilmente discutibile.
In un collage di informazioni che ci insegna a considerare un maschio poco atletico e poco coraggioso una “femminuccia”, come se essere portatori di qualche componente femminile sia sinonimo di debolezza o spregio, pensare che le donne siano più sensibili mentre l’uomo non lo sia per “natura” -ritorna questo tanto amato termine-, cosa è lo stereotipo? Quanto è in grado di condizionare la nostra opinione personale su una donna giudicata collettivamente in maniera negativa se supera un determinato numero di partener sessuali? Che cosa ci fa credere che un uomo gay debba per forza essere effeminato? Geloso? Nervoso? Un uomo non può farsi la ceretta o la pedicure per far sì che la comunità non dubiti sia omosessuale?
Definiamo: gli stereotipi sono “idee, opinioni precostituite su persone o gruppi, che prescindono dalla valutazione razionale del singolo individuo” (Treccani). Sono il frutto di un processo di generalizzazione eccessiva, la semplificazione di un determinato aspetto sociale, in conclusione: una falsa “operazione deduttiva” (un ragionamento sbagliato, avvalorato da un’esperienza che giudichiamo “certa”, nei fatti è vincolata da gradi di valutazione corrotti).
Gli effetti negativi nel nostro modo di pensare e credere, nel nostro modo di relazionarci col mondo circostante, sono molti: chiusura mentale, arretratezza culturale, blocco. Le “false opinioni generalizzate” si cristallizzano a tal punto da vincolare il singolo individuo a una condizione di conoscenza stagnante. Il nostro raggio di azione, nel valutare e scoprire l’uomo in maniera universale, è limitato!
Non vi è ombra di dubbio, fanno male e limitano la nostra libertà, individuale e collettiva. Peggiorano le nostre condizioni di salute; introduciamo il fenomeno del minority stress, presentato e studiato dal Vittorio Lingiardi (psichiatra e professore ordinario di psicologia dinamica presso l’Università Sapienza di Roma): “Quando gli stereotipi colpiscono delle minoranze sociali (romeni, omosessuali, etc.) quella parte della popolazione conviverà con una pressione sociale costante e tale da recare statisticamente maggiori problemi di salute o minor attenzione alle cure necessarie della propria persona”.
Ci riferiamo sempre a un contesto sociale e non individuale; identifichiamo all’origine del problema un soggetto (io) che entra in relazione con la realtà circostante, percepita “indipendente” e “estranea”.
La nostra realtà per “eccellenza”, con la quale cresciamo e maturiamo, è la vita quotidiana: culturale, materiale e infine un terzo e ultimo livello, la realtà/vita che nasce tra la condivisione di più individui che possiedono delle conoscenze comuni. Il quotidiano è sì composto da aspetti evidenti, constatazioni, è costituito di routine, è limitato nello spazio e nel tempo.
Il mondo che conosciamo è certo; tuttavia è proprio da queste certezze che l’uomo crea e impara a farsi delle domande, in termini tecnici diremo: problematizza l’ovvio.
In questa ampia dinamica di ricerca e condivisione accade che si scopra qualcosa di nuovo, e il nostro “io” di fronte alla novità prova timore e curiosità: “L’uomo incontrando l’ignoto prova paura!”. La novità spaventa, ci induce a creare preconcetti, opinioni deduttive e risolutive, affinché questo sentimento “negativo” suscitato e le domande che con esso nascono si possano attenuare. Non siamo in grado di rispondere a tutto in maniera veloce rispetto il nuovo.
I sociologi e filosofi Berger e Luckman affermano: “Le risposte date dalla paura, nell’uomo, si cristallizzano nel corso del tempo e si trasmettono ai posteri”.
Sappiamo quindi il periodo della nostra vita durante il quale cominciamo a masticare il pane degli stereotipi: l’infanzia.
Torniamo ora alla definizione presentata in principio, nello specifico tratteremo gli stereotipi sociali: insieme coerente e rigido di credenze che un certo gruppo condivide. Da notare: non vanno confusi con i pregiudizi. Questi ultimi possiedono anche forti componenti emotive, sono molto più pericolosi in quanto giudizi che precedono l’esperienza sensibile! Vi è la tendenza a considerare a priori negativamente le persone che appartengono a una determinata categoria sociale, ad averne paura, avversale.
Mentre il primo rimane confinato all’astratto, il secondo risulta essere la sua concretizzazione modificando realmente il mondo circostante. La manifestazione pratica dello stereotipo nel pregiudizio ha dato origine e da origine nella nostra società a: nazionalismo, pregiudizi etnici, antisemitismo, infine, ai pregiudizi di “genere”.
Se pensiamo a questi ultimi è facile tornare ai riferimenti, e alle espressioni come quella più sopra esposta “non fare la femminuccia”. La nostra società è di tradizione, e forse tutt’oggi rimane, maschilista. Lo spregio che si ha culturalmente verso la categoria delle donne è tale da riversarsi come appellativo spregiativo contro altre minoranze, e noi omosessuali in particolare ne siamo coinvolti con generalizzazioni comuni quali “gay effemminato”, “femminuccia”, la scarsa considerazione avviene con l’assimilazione dell’omosessualità alla classe femminile ritenuta meno rilevante o importante.
I ruoli di genere e le considerazioni erronee a riguardo coinvolgono tutti e molto di più di quanto possiamo pensare: siamo tutti egualmente limitati nella nostra liberta. Vivendo con gli stereotipi non si può scegliere: in quanto uomo perché costretto a rispettare precise etichette, in quanto donna, confinata con stigmatizzazioni costanti.
L’illuminismo e la volontà sono ancora oggi dei medicamenti efficaci. La ragione, la cultura e la conoscenza insieme all’empatia e alla capacità di andare oltre a noi stessi, può aiutarci a vincere questo grande male.